MC Rajim si alza, sistema i braccialetti al polso e prende il microfono. Parte la base, le musicalità di un pezzo rap old school si diffondono dalla cassa e lui inizia ad improvvisare sul beat; rappa veloce, senza fermarsi, il pubblico trascinato batte le mani a ritmo. Siamo a Lipa, campo profughi per single men a Bihać, nel nord-ovest della Bosnia, durante una delle attività pomeridiane organizzate da Ipsia per i ragazzi del campo. “In Afghanistan non ho mai potuto rappare su un palco” racconta “non è visto bene il rap”. E poi ci chiede di non pubblicare foto o video dove compaia la sua faccia.
Siamo arrivati a Bihać alla fine di giugno e rimarremo per un anno a svolgere il nostro servizio civile. Siamo Bianca, Cecilia, Rossana e Tommaso, abbiamo tra i 24 e i 27 anni e diverse esperienze di lavoro e volontariato con migranti e rifugiati in Europa, ma un campo brutto come quello di Lipa non l’abbiamo visto spesso. Tendoni militari verdi, caldissimi sotto il sole bosniaco, senza acqua potabile. I bagni chimici diffondono odori pessimi, lo staff dell’agenzia che gestisce il campo non sembra avere molte capacità nel rapportarsi con i profughi. La tensione e l’irritabilità di chi nel campo ci vive la si percepisce subito e alle volte si materializza in scoppi d’ira e colluttazioni, risse. Durante le attività che organizziamo, però, si riesce a creare un clima disteso, si ride e si scherza volentieri e si chiacchiera in un misto di pashtun, urdu, bosniaco, inglese e italiano, con i gesti che aiutano a tradurre le parole che mancano. Ci troviamo bene con i vari pachistani, afghani, iraniani che abbiamo conosciuto a Lipa. Non sono tanti quelli che partecipano alle attività pomeridiane, ma chi lo fa è grato di avere un momento di distrazione dalla quotidianità di Lipa e te lo fanno capire in tutti i modi, con parole gentili o della parata fritta carica di peperoncino. In queste poche settimane di soggiorno abbiamo già visto passare un sacco di gente che un giorno si presenta con uno zaino in spalla e viene a salutare: “I go to game”, dicono, quel game infame che è l’attraversare i confini della nostra Europa fredda e cinica, ammantata di retorica e nuda di violenza. Spesso vengono rimandati indietro a botte, senza zaini cellulari e soldi, bruciati o rubati dalla polizia croata. Capita di parlare con chi ha già provato il game una decina di volte e si trova ancora bloccato nel limbo bosniaco a recuperare le forze e i soldi per un nuovo tentativo. Capita di parlare con chi, dopo due o tre anni, non ha più le forze per provare ad entrare in Europa e ti chiede, sconsolato, il perchè di tutta questa violenza. Sono domande difficili, che ti spiazzano e ti lasciano senza risposte. Ce la farai ad arrivare in Italia, inshalla, se dio vuole, è tutto quello che riusciamo a tirare fuori a denti stretti, maledicendo l’Europa.
Fuori dal campo la vita a Bihać scorre tranquilla, immersa nella natura: la cittadina al confine con la Croazia si trova nel cantone di Una-Sana, che è composto dai nomi di due fiumi piuttosto grossi che ne attraversano il territorio. La Una scorre dietro casa nostra e finito il lavoro andiamo quasi tutti i giorni a nuotare. L’acqua è molto fredda e la corrente piuttosto forte, ma i nostri colleghi bosniaci conoscono i posti dove si può fare il bagno. Uno dei primi weekend andiamo al campeggio di Amar. Ha 26 anni, durante l’estate lavora come guida turistica accompagnando i turisti a fare rafting lungo la Una e d’inverno si arrangia come può per il lavoro. Attorno alla griglia ci sono seduti una quindicina di uomini di mezza età che mangiano ćevapi e bevono rakija e che ci invitano a suonare con loro quando ci vedono con in spalla una chitarra. Cantiamo De Andrè, Zucchero, i Pink Floyd e canzoni in bosniaco che non capiamo, ma niente trascina il gruppo come Bella Ciao, che intonano loro. Per ringraziarci ci offrono da bere.
È facile sentirsi a casa in Bosnia, chi incontriamo è aperto e accogliente e non capiamo come questo possa convivere con la guerra terribile e recentissima che ha sconvolto queste terre. Lo scorso weekend siamo stati a Srebrenica nell’anniversario del genocidio; tra le lapidi bianche abbiamo visto famiglie accompagnare bambini piccoli a salutare parenti che lì, 26 anni prima esatti, avevano perso la vita tra le mani delle truppe serbo-bosniache di Mladić. La guerra ha più o meno la nostra età, anche se in Italia ne sappiamo davvero poco.
È facile sentirsi a casa in Bosnia, difficilissimo immaginarsi cosa voglia dire sentirsi bosniaco e trascinarsi dietro questa eredità in un paese tenuto insieme dalle graffette degli accordi di Dayton.